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In quanti modi si può dire che c'è vita negli archivi?
– Voglio che tu apra un nuovo dossier, – le rispose, – prima di andar via dall’ufficio. Fair Play for Cuba. In una bella cartelletta rosa.
– E che cosa ci metto dentro, nel dossier?
– Quando apri un dossier, Delphine, è solo questione di tempo e il materiale ci piove dentro. Appunti, elenchi, foto, chiacchiere. Tutti i frammenti e le briciole e i sussurri del mondo che non hanno una vita finché qualcuno non arriva a raccoglierli. Sta tutto lì, ad aspettare soltanto te.
A modo nostro.
Sentinella: “Chi va là?”
Oreste Jacovacci: “Ma che fai aho, prima spari e poi dici chi va là?”
Sentinella: “È sempre mejo ‘n amico morto che ‘n nemico vivo! Chi siete?”
Oreste Jacovacci: “Semo l’anima de li mortacci tua!”
Sentinella: “E allora passate!”
(La grande guerra, 1959, regia di Mario Monicelli)
(nel maggio 2022 siamo venuti in contatto, per motivi professionali, con Melissa Strizzi e abbiamo scoperto che l’autore di questa meravigliosa foto è suo padre Sergio, grande fotografo di scena per tutta la seconda metà del ventesimo secolo)
cos'è un ghiribizzo?
Piccolo roditore che passa lunghi periodi in un profondo stato di letargo. Spesso però si sveglia dal suo sonno e fa cose strane, come cuocersi un piatto di spaghetti in piena notte o invitare altri ghiribizzi a un pigiama party.
(da Gualtiero Bordiglioni, Zoovocabolario. Dizionario enciclopedico riccamente illustrato degli animali che vivono nelle parole, Emme edizioni, San Dorligo della Valle (Trieste), 2012, p. 32)
e grazie, tante grazie a Daniela Marendino per il cadeau!!!
C'è modo e modo di scoprire la realtà e porsi delle domande. Una bambina e un archivio che le apre un mondo.
Questa volta ero decisa: volevo scappare dai baci umidi di tutte le vecchie zie matte e sdentate. Ma dove infilarmi? In bagno mi avrebbero subito scovata. Avevo bisogno di un angolo più nascosto e meno frequentato. Prendo un corridoio a destra e apro una porta a sinistra. Stanza ovattata, gli scuri accostati. La luce del sole entra appena. Inizio a guardarmi intorno. Una scrivania, due sedie girevoli, un grande mobile archivio pieno di cassetti e scaffali lungo la parete destra. Mi avvicino e inizio a osservare quelle grandi cartelle di cartone chiuse con delle fettucce di stoffa giallastre.
Erano tante, impilate lì dentro, una di fianco all’altra. L’inchiostro sul frontespizio è ingrigito. Parrebbe dal tempo. E infatti leggo: anno 1899. La cartella pesa. La sfilo dallo scaffale e la appoggio sulla scrivania. Accendo la luce della lampada da tavolo che mi trovo accanto e sciolgo il fiocco giallastro e impolverato. Afferro il faldone di fogli che mi si para davanti e prendo la mia lente di ingrandimento dalla tasca. Inizio: “Tabella nosologica – Numero d’ordine 64, anno 1899. G. Romana, 18 ottobre ’99, anni 11. Religione: Cattolica. Costituzione fisica: Ordinaria. Diagnosi: frenopatia .. fran.” (ma qui non si capisce bene. La scrittura adulta e affrettata, inclinata verso destra come a voler scorrere il più in fretta possibile, non mi fa leggere con chiarezza, però la parola finale, quella si che la capisco: Epilettica). “Esito: non migliorata. Trasferita, marzo 1903.”
Sopra la scritta “Tabella nosologica”, una foto. Di una bambina che mi guarda un po’ storto e con un mezzo sorriso. E’ seduta. Le mani appoggiate sulle cosce, una sopra l‘altra. Ha l’aria tranquilla e un bel colletto di pizzo bianco che risalta sul vestito scuro. Nel bianco nero sgualcito e seppiato quell’immagine mi rimbalza addosso e lo sguardo, un po’ storto anche il mio, mi ritorna sulla voce “esito”: non migliorata trasferita. Trasferita dove? E perché?
In un sito del genere poteva mancare il compagno Saramago? compagno degli archivisti, dico... E se "tutti i nomi" deve essere, allora rispolveriamo il clamoroso incipit dove non manca quasi nulla delle problematiche archivistiche. E della vita. Quasi.
Sopra la cornice della porta c’è una placca metallica lunga e stretta, rivestita di smalto. Su sfondo bianco, le lettere nere annunciano Conservatoria Generale dell’Anagrafe. Lo smalto è crepato e sbrecciato in alcuni punti. La porta è antica, l’ultimo strato di vernice marrone si sta scrostando, le venature del legno, visibili, ricordano una pelle striata. Ci sono cinque finestre sulla facciata. Appena si varca la soglia, si sente l’odore della carta vecchia. Certo è che non passa giorno senza che in Conservatoria entrino incartamenti nuovi, degli individui di sesso maschile e di sesso femminile che fuori continuano a nascere, ma l’odore non cambia mai, in primo luogo perché il destino di ogni foglio nuovo, subito dopo l’uscita dalla fabbrica, è quello di cominciare a invecchiare, in secondo luogo perché, di solito più spesso sui fogli vecchi, ma tante volte su quelli nuovi, non passa giorno che non si scrivano cause di decessi e relativi luoghi e date, ciascuno apportando i propri particolari odori, non sempre offensivi per le mucose olfattive, come dimostrano certi effluvi aromatici che di tanto in tanto, impercettibilmente, attraversano l’atmosfera della Conservatoria Generale e che i nasi più fini identificano come un profumo composto metà di rosa e metà di crisantemo.
In un esercizio di storia controfattuale Harris immagina il mondo dopo una seconda guerra mondiale vinta dalla Germania nazista. Un mondo in cui non si sa nulla dello sterminio. Ma lo sterminio ha avuto la sua preparazione e ha prodotto una sua burocrazia. E i suoi archivi, che qualcuno, nella fantasia di Harris, testardamente indaga. Mette i brividi leggere gli estremi cronologici di quella serie che, senza Stalingrado e la Normandia, avrebbe potuto tracimare al 1950.
Halder spiegò la procedura. L’archivio funzionava secondo i principi di un magazzino. Le richieste dei dossier pervenivano a ogni piano a un servizio centrale. Lì, nei registri alti un metro e spessi venti centimetri, era tenuto l’indice principale. Accanto a ogni dossier era annotato il numero dello scaffale. Gli scaffali si trovavano negli adiacenti magazzini antincendio. Il segreto, spiegò Halder, stava nel sapersi destreggiare con l’indice generale. Passò accanto ai volumi rilegati in pelle cremisi, batté sul dorso di ognuno fino a quando trovò quello che cercava, e lo portò al banco del dirigente del piano.
Una volta March era sceso sottocoperta sulla portaerei Grossadmiral Raeder. Gli abissi del Reichsarchiv gliela ricordavano: soffitti bassi con file di lampade, la sensazione di qualcosa d’immane che gravava dall’alto. Accanto al banco c’era una fotocopiatrice… uno spettacolo raro in Germania, dove la loro distribuzione era controllata rigorosamente per impedire che i sovversivi riproducessero testi vietati. Una dozzina di carrelli vuoti era allineata accanto all’ascensore. March poteva vedere in ogni direzione per una cinquantina di metri. Era tutto deserto.
Halder proruppe in un’esclamazione di trionfo: «Segretario di Stato: Fascicoli dell’ufficio, 1939-1950. Oh, Cristo! Sono quattrocento scatole. Che anni vuoi vedere?».
«Il conto sulla banca svizzera era stato aperto nel luglio ’42, quindi facciamo i primi sette mesi di quell’anno.»
Halder girò il foglio e continuò a parlare a se stesso. «Sì, ecco cosa hanno fatto. Hanno ordinato i documenti in quattro serie: corrispondenza d’ufficio, verbali e promemoria, statuti e decreti, personale del ministero…»
«lo cerco qualcosa che colleghi Stuckart a Buhler e Luther.»
«Allora è meglio incominciare con la corrispondenza dell’ufficio. Così ci faremo un’idea di quello che succedeva allora.» Halder prendeva appunti. «D/15/MI28-34. Bene. Andiamo.»
Il Magazzino D era venti metri a sinistra. Lo scaffale 15, sezione M, era proprio al centro. Halder disse: «Sono soltanto sei scatole, grazie a Dio. Tu prendi quelle da gennaio ad aprile, io quelle da maggio ad agosto.»
Erano scatole di cartone, e ognuna aveva le dimensioni di un grosso cassetto da scrivania. Non c’erano tavoli, e perciò sedettero sul pavimento. Con la schiena appoggiata allo scaffale metallico. Mach aprì la prima scatola, estrasse un fascio di carte e incominciò a leggere.
(la citazione è presa dalle pagine 241-242)
Una metafora del lavoro di analisi come svuotamento di un archivio tenuto in buon ordine. O meglio, lo svuotamento di un archivio come uno dei tre tipi di disposizione delle memorie che si incontrano nell'analisi.
Era come se si svuotasse un archivio tenuto in buon ordine. Nell’analisi della mia paziente Emmy von N. sono contenuti analoghi fascicoli di ricordi, anche se non altrettanto numerati e descritti. Essi costituiscono però un fatto del tutto generale in ogni analisi e si presentano ogni volta in un ordine cronologico, altrettanto sicuro dell’ordine di successione dei giorni della settimana o dei nomi dei mesi per la persona mentalmente normale, e rendono difficile il lavoro dell’analisi per la loro particolarità di invertire, nella riproduzione, l’ordine di successione originario; l’esperienza più recente, più fresca del fascicolo viene per prima come “copertina”, e la fine è data da quell’impressione con la quale in realtà la serie è incominciata. Ho indicato il raggruppamento di ricordi omogenei in una pluralità linearmente stratificata (quale si ha nel fascicolo di una pratica d’archivio, in un pacco di documenti, ecc.) come formazione di un tema.
Concise and to the point.
A mighty creature is the germ,
Though smaller than the pachyderm.
His customary dwelling place
Is deep within the human race.
His childish pride he often pleases
By giving people strange diseases.
Do you, my poppet, feel infirm?
You probably contain a germ.
Scarto preventivo.
“Credi davvero che Asahikawa non sia tanto male?” chiese Reiko.
“È un ottimo posto, “ dissi. “Verrò a trovarti presto.”
“Sul serio?”
Annuii. “Ti scriverò.”
“Mi piacciono tanto le tue lettere. Peccato che Naoko le abbia bruciate tutte. Erano belle.”
“Tanto, le lettere sono lettere,” dissi. “Che tu le bruci o le conservi, quello che rimane e quello che si deve perdere si perde.”
“Va bene va bene. Ma senti, se devo esser sincera sto morendo di paura, ad andare da sola ad Asahikawa. Perciò tu scrivi, mi raccomando. Se leggo le tue lettere è come averti sempre accanto.”
“Allora te ne scriverò tante. Ma stai tranquilla. Una persona come te se la caverà bene dappertutto.”
“Ho l’impressione che mi sia rimasto dentro qualcosa. Sarà solo l’impressione?”
“Dicevi che a te della vita restavano solo i ricordi. Saranno quelli,” dissi ridendo. Anche lei rise.
Evocazione poetica, a saperla seguire.
Inutilmente, magnanimo Kublai, tenterò di descriverti la città di Zaira dagli alti bastioni. Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte a scale, di che sesto gli archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono ricoperti i tetti; ma so già che sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato: la distanza dal suolo d’un lampione e i piedi penzolanti d’un usurpatore impiccato; il filo teso dal lampione alla ringhiera di fronte e i festoni che impavesano il percorso del corteo nuziale della regina; l’altezza di quella ringhiera e il salto dell’adultero che la scavalca all’alba; l’inclinazione d’una grondaia e l’incedervi d’un gatto che s’infila nella stessa finestra; la linea di tiro della nave cannoniera apparsa all’improvviso dietro il capo e la bomba che distrugge la grondaia; gli strappi delle reti da pesca e i tre vecchi che seduti sul molo a rammendare le reti si raccontano per la centesima volta la storia della cannoniera dell’usurpatore, che si dice fosse un figlio adulterino della regina, abbandonato in fasce lì sul molo.
Di quest’onda che rifluisce dai ricordi la città s’imbeve come una spugna e si dilata. Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.
L'archivio che abitiamo, quello che ci rende tutti uguali. Grazie di cuore a Cinzia Chiodetti, ghiribizzista.
A prima vista è solo un fermacarte, ma osservato più da vicino appare per quello che è: un frammento di roccia di un colore verde così cupo da sembrare quasi nero, grande quanto un pugno e di forma arrotondata, un ciottolo… La storia del fermacarte inizia con un magma rovente che risale dal mantello, lungo una fessura della crosta, fino a espandersi sul fondo dell’antico oceano, dove si cristallizza come basalto… Schiacciato da enormi pressioni, il basalto comincia a metamorfosarsi, mentre il fondo oceanico, lacerato in lembi spinti ad affastellarsi uno sull’altro, gradualmente viene sollevato di migliaia di metri. L’erosione attacca i nuovi rilievi e li demolisce, finché anche i basalti vengono a giorno. Negli ultimissimi milioni di anni l’espansione dei ghiacci concorre a modellare i rilievi montuosi, scavando valli e circhi glaciali e facendo accumulare materiale morenico, tra cui i ciottoli striati. Il nostro fermacarte è stato testimone di tutti questi eventi, anzi, ne è stato uno dei protagonisti e reca in sé le tracce delle vicende subìte che, con la chiave adatta, siamo in grado di leggere. Ed è proprio scrivendo storie come questa che i geologi ricostruiscono l’evoluzione del pianeta, indietro nel tempo fin dove arrivano le rocce, archivio della Terra.
Schiavone è davanti ad una casa povera (piazza Pantero Pantera, alla Garbatella) in cui viveva il ragionier Iatta da poco trovato ucciso nel mercato di via Garibaldi. Le indagini hanno inizio e le carte parlano.
L’accattone.
[…] Il bagno era piccolo, senza finestra, senza bidet e con il piatto doccia pieno di scatoloni. Rocco ne aprì uno. Polvere. Dentro una marea di carte. Conti, bollette della SIP, fatture di ristoranti, biglietti delle FS. Le date parlavano chiaro. Non c’era nulla posteriore al 1992. Roba vecchia che forse una volta era il lavoro del ragionier Iatta. E che lui aveva stipato in quei cartoni di pomodori pelati, ricordi forse di una vita che fu. Rocco pensò a quando avrebbe compiuto 80 anni. Ammesso che ci fosse arrivato. Nei suoi scatoloni cosa ci sarebbe rimasto? Le foto di Marina al mare, sicuro. Quelle dei suoi amici di Trastevere. Sebastiano, Stampella, Furio e Brizio. Qualche diploma, l’encomio per un caso risolto, un trafiletto di giornale, le lettere del questore che lo minacciava di trasferimento. E soprattutto l’ultimo pacchetto di maria che non era riuscito a fumarsi, magari per l’enfisema o un cancro devastante. Tutta robba che agli occhi di un estraneo non avrebbe significato nulla. E invece scandiva la sua vita. Decise che anche quelle fatture scandivano il tempo sincopato del ragionier Iatta. Si accese una sigaretta e si mise al lavoro.
Nisida, il racconto di una professoressa
Almarina mi consegna la sua speranza e io sbaglio. Ma non è che si può rifiutare. Quando entri qui dentro non puoi rifiutare più nulla, i detenuti di Nisida non ti chiedono il permesso di maltrattarti o accoglierti. […]. I loro reati si dividono in due frasi, quelle che loro non possono pronunciare mai, manco con noi insegnanti. Sono racconti sussurrati in sala professori mantre si scalda il caffè sul fornellino elettrico. E quando la collega di lettere ce li dice, noi ascoltiamo e ci guardiamo senza pena né rabbia, né disappunto né orrore né solidarietà né per le vittime né per i carnefici. Noi prendiamo questi faldoni e li riponiamo nel più remoto archivio della memoria e dopo nascondiamo la chiave. La nostra speranza, credo, è che quel giorno, ora lontano, in cui avranno scontato tutta la pena, tornerà loro nelle mani questa chiave, e dagli archivi spalancati voleranno fogli bianchi senza più inchiostro sopra, immacolati, come il bucato delle terrazze.
Biblioteche d'autore e ritrovamenti sorprendenti tra le pagine lette.
[…] Consideri la possibilità che esistano frammenti di un suo racconto mai pubblicato [si riferisce a Henry James], e che lei, lei solo, grazie alla sua inventiva, sia in grado di restaurarlo come la sbiadita sinopia di un antico affresco. Se fosse lei a riportarlo alla luce ne diventerebbe il curatore, assumendone la proprietà artistica. Potrebbe utilizzarlo come vuole: farne un romanzo, trarne una sceneggiatura.. E se la storia fosse anche avvincente, la sua candidatura alla regia potrebbe concretizzarsi notevolmente. – E lei crede davvero che esista un inedito? – Oh si, eccome! La produzione di Henry James è smisurata. Se solo le sue lettere fossero raccolte, non basterebbero un centinaia di tomi per contenerle tutte. E in ogni caso, tra la corrispondenza ci sono anche racconti, o abbozzi di racconti di romanzi che occuperebbero uno spazio non minore. A voler fare i conti, si potrebbe giungere alla conclusione che avesse cominciato a scrivere sin da quando era in fasce. – Ma dove trovarli, questi inediti? – Potrebbe contattare mia figlia Olga. Santiquaria in sestrire i è laureata proprio su una tesi sugli inediti di Henry James.
La figli di Elie [Olga] gestiva una libreria antiquaria in sestiere Cannareggio, e in vent’anni di attività era venuta in possesso di parecchi scritti autografi di Henry James, in gran parte ritrovati tra le pagine di libri usati – spesso in biblioteche private acquistate in blocco.
Diritto all'oblio. Ma gli archivi sono tasselli e disseminazione..
Distruggere tutto, bruciare tutto, dare alle fiamme fotografie e lettere in blocco, senza fare una scelta, senza selezionale.
E’ ciò che comincia a fare alla fine del 1948 nella casa di Park Avenue.. Ci metterà tempo, perché bruciare centinaia di migliaia di fogli essendo un’invalida che fatica a portare le scatole fino al caminetto è ancora una volta un lavoro titanico.
Una notte dopo l’altra durante i mesi di gennaio, febbraio e marzo del 1949 getta nel fuoco le reliquie della sua vita. In primavera è tutto andato in fumo, i quaderni del suo diario, le innumerevoli lettere di Bernard Berenson.. già, tutte le lettere in cui le dichiarava il suo amore, le raccontava delle sue ricerche e le parlava delle sue scoperte. Più di duemila fogli.
Quando Berenson viene a sapere di quell’autodafé grida inorridito: “Ha distrutto quarant’anni della mia biografia!”. Belle pretende che lui faccia altrettanto, ma lui non deciderà mai. (pp.476-477)
Le lettere di Belle Greene a Bernard Berenson sono conservate a Villa I Tatti a Fiesole
Due telegrammi che testimoniano fatti di storia del cinema mondiale.
Nel 1962 Burt Lancaster, (…), si dichiara disponibile [per il film Il Gattopardo di Luchino Visconti].
Goffredo Lombardo vola negli Stati Uniti per costruire una partnership con gli americani e prima di partire fa tradurre e spedire la sceneggiatura. Quando arriva, gli americani lo gelano: gli dicono che la sceneggiatura non funziona, e così com’è non pensano di metterci i soldi.
E qui Lombardo fa una cosa grandiosa: scrive due telegrammi diversi. Uno a Visconti e uno a Suso [Cecchi D’Amico]. Quello a Visconti è il seguente: MERCATO INTERNAZIONALE EST FIACCO ET CON LANCASTER ET SUA REGIA OTTENIAMO CHE PROGETTO NON SIA SCARTATO MA PURTROPPO DIMENSIONE ASSUNTO DA FILM RAPPRESENTA OSTACOLO INSORMONTABILE STOP FRA QUALCHE GIORNO SPERO POTER INCREMENTARE OFFERTA RICEVUTA ET TELEGRAFERO IMMEDIATAMENTE SPERANDO CHE LEI ET SOLO LEI POSSA OPERARE MIRACOLO.
Quello a Suso è accorato e sincero: RISERVATAMENTE SCENEGGIATURA GATTOPARDO REAZIONI NEGATIVE DICONO LENTA SENZA INTERESSE ET DIALOGHI FILOSOFICI INTERMINABILE STOP VOGLIONO INOLTRE FILM MASSIMO DUE ORE STOP PREVENTIVO INVIATOMI NOTARIANNI EST FOLLE ET MIE RICHIESTE ANCHE CON LANCASTER OTTENGONO SOLO ILARITA STOP PER FAVORE STUDIA POSSIBILITà ELIMINARE SCENE ET SITUAZIONI MAGGIOR COSTO ET LUNGHEZZA PARLANDONE COME TUA IDEA CON VISCONTI STOP AIUTAMI GRAZIE.
Quest’ultimo telegramma è conservato tra le carte di Caterina d’Amico, l’ho tenuto in mano: alcune carte originali danno misura del tempo e della grandezza; anche perchè quel telegramma ha il mito del segreto. (pp. 128-129)
– Voglio che tu apra un nuovo dossier, – le rispose, – prima di andar via dall’ufficio. Fair Play for Cuba. In una bella cartelletta rosa.
– E che cosa ci metto dentro, nel dossier?
– Quando apri un dossier, Delphine, è solo questione di tempo e il materiale ci piove dentro. Appunti, elenchi, foto, chiacchiere. Tutti i frammenti e le briciole e i sussurri del mondo che non hanno una vita finché qualcuno non arriva a raccoglierli. Sta tutto lì, ad aspettare soltanto te.
Sentinella: “Chi va là?”
Oreste Jacovacci: “Ma che fai aho, prima spari e poi dici chi va là?”
Sentinella: “È sempre mejo ‘n amico morto che ‘n nemico vivo! Chi siete?”
Oreste Jacovacci: “Semo l’anima de li mortacci tua!”
Sentinella: “E allora passate!”
(La grande guerra, 1959, regia di Mario Monicelli)
(nel maggio 2022 siamo venuti in contatto, per motivi professionali, con Melissa Strizzi e abbiamo scoperto che l’autore di questa meravigliosa foto è suo padre Sergio, grande fotografo di scena per tutta la seconda metà del ventesimo secolo)
Piccolo roditore che passa lunghi periodi in un profondo stato di letargo. Spesso però si sveglia dal suo sonno e fa cose strane, come cuocersi un piatto di spaghetti in piena notte o invitare altri ghiribizzi a un pigiama party.
(da Gualtiero Bordiglioni, Zoovocabolario. Dizionario enciclopedico riccamente illustrato degli animali che vivono nelle parole, Emme edizioni, San Dorligo della Valle (Trieste), 2012, p. 32)
e grazie, tante grazie a Daniela Marendino per il cadeau!!!
Questa volta ero decisa: volevo scappare dai baci umidi di tutte le vecchie zie matte e sdentate. Ma dove infilarmi? In bagno mi avrebbero subito scovata. Avevo bisogno di un angolo più nascosto e meno frequentato. Prendo un corridoio a destra e apro una porta a sinistra. Stanza ovattata, gli scuri accostati. La luce del sole entra appena. Inizio a guardarmi intorno. Una scrivania, due sedie girevoli, un grande mobile archivio pieno di cassetti e scaffali lungo la parete destra. Mi avvicino e inizio a osservare quelle grandi cartelle di cartone chiuse con delle fettucce di stoffa giallastre.
Erano tante, impilate lì dentro, una di fianco all’altra. L’inchiostro sul frontespizio è ingrigito. Parrebbe dal tempo. E infatti leggo: anno 1899. La cartella pesa. La sfilo dallo scaffale e la appoggio sulla scrivania. Accendo la luce della lampada da tavolo che mi trovo accanto e sciolgo il fiocco giallastro e impolverato. Afferro il faldone di fogli che mi si para davanti e prendo la mia lente di ingrandimento dalla tasca. Inizio: “Tabella nosologica – Numero d’ordine 64, anno 1899. G. Romana, 18 ottobre ’99, anni 11. Religione: Cattolica. Costituzione fisica: Ordinaria. Diagnosi: frenopatia .. fran.” (ma qui non si capisce bene. La scrittura adulta e affrettata, inclinata verso destra come a voler scorrere il più in fretta possibile, non mi fa leggere con chiarezza, però la parola finale, quella si che la capisco: Epilettica). “Esito: non migliorata. Trasferita, marzo 1903.”
Sopra la scritta “Tabella nosologica”, una foto. Di una bambina che mi guarda un po’ storto e con un mezzo sorriso. E’ seduta. Le mani appoggiate sulle cosce, una sopra l‘altra. Ha l’aria tranquilla e un bel colletto di pizzo bianco che risalta sul vestito scuro. Nel bianco nero sgualcito e seppiato quell’immagine mi rimbalza addosso e lo sguardo, un po’ storto anche il mio, mi ritorna sulla voce “esito”: non migliorata trasferita. Trasferita dove? E perché?
Sopra la cornice della porta c’è una placca metallica lunga e stretta, rivestita di smalto. Su sfondo bianco, le lettere nere annunciano Conservatoria Generale dell’Anagrafe. Lo smalto è crepato e sbrecciato in alcuni punti. La porta è antica, l’ultimo strato di vernice marrone si sta scrostando, le venature del legno, visibili, ricordano una pelle striata. Ci sono cinque finestre sulla facciata. Appena si varca la soglia, si sente l’odore della carta vecchia. Certo è che non passa giorno senza che in Conservatoria entrino incartamenti nuovi, degli individui di sesso maschile e di sesso femminile che fuori continuano a nascere, ma l’odore non cambia mai, in primo luogo perché il destino di ogni foglio nuovo, subito dopo l’uscita dalla fabbrica, è quello di cominciare a invecchiare, in secondo luogo perché, di solito più spesso sui fogli vecchi, ma tante volte su quelli nuovi, non passa giorno che non si scrivano cause di decessi e relativi luoghi e date, ciascuno apportando i propri particolari odori, non sempre offensivi per le mucose olfattive, come dimostrano certi effluvi aromatici che di tanto in tanto, impercettibilmente, attraversano l’atmosfera della Conservatoria Generale e che i nasi più fini identificano come un profumo composto metà di rosa e metà di crisantemo.
Halder spiegò la procedura. L’archivio funzionava secondo i principi di un magazzino. Le richieste dei dossier pervenivano a ogni piano a un servizio centrale. Lì, nei registri alti un metro e spessi venti centimetri, era tenuto l’indice principale. Accanto a ogni dossier era annotato il numero dello scaffale. Gli scaffali si trovavano negli adiacenti magazzini antincendio. Il segreto, spiegò Halder, stava nel sapersi destreggiare con l’indice generale. Passò accanto ai volumi rilegati in pelle cremisi, batté sul dorso di ognuno fino a quando trovò quello che cercava, e lo portò al banco del dirigente del piano.
Una volta March era sceso sottocoperta sulla portaerei Grossadmiral Raeder. Gli abissi del Reichsarchiv gliela ricordavano: soffitti bassi con file di lampade, la sensazione di qualcosa d’immane che gravava dall’alto. Accanto al banco c’era una fotocopiatrice… uno spettacolo raro in Germania, dove la loro distribuzione era controllata rigorosamente per impedire che i sovversivi riproducessero testi vietati. Una dozzina di carrelli vuoti era allineata accanto all’ascensore. March poteva vedere in ogni direzione per una cinquantina di metri. Era tutto deserto.
Halder proruppe in un’esclamazione di trionfo: «Segretario di Stato: Fascicoli dell’ufficio, 1939-1950. Oh, Cristo! Sono quattrocento scatole. Che anni vuoi vedere?».
«Il conto sulla banca svizzera era stato aperto nel luglio ’42, quindi facciamo i primi sette mesi di quell’anno.»
Halder girò il foglio e continuò a parlare a se stesso. «Sì, ecco cosa hanno fatto. Hanno ordinato i documenti in quattro serie: corrispondenza d’ufficio, verbali e promemoria, statuti e decreti, personale del ministero…»
«lo cerco qualcosa che colleghi Stuckart a Buhler e Luther.»
«Allora è meglio incominciare con la corrispondenza dell’ufficio. Così ci faremo un’idea di quello che succedeva allora.» Halder prendeva appunti. «D/15/MI28-34. Bene. Andiamo.»
Il Magazzino D era venti metri a sinistra. Lo scaffale 15, sezione M, era proprio al centro. Halder disse: «Sono soltanto sei scatole, grazie a Dio. Tu prendi quelle da gennaio ad aprile, io quelle da maggio ad agosto.»
Erano scatole di cartone, e ognuna aveva le dimensioni di un grosso cassetto da scrivania. Non c’erano tavoli, e perciò sedettero sul pavimento. Con la schiena appoggiata allo scaffale metallico. Mach aprì la prima scatola, estrasse un fascio di carte e incominciò a leggere.
(la citazione è presa dalle pagine 241-242)
Era come se si svuotasse un archivio tenuto in buon ordine. Nell’analisi della mia paziente Emmy von N. sono contenuti analoghi fascicoli di ricordi, anche se non altrettanto numerati e descritti. Essi costituiscono però un fatto del tutto generale in ogni analisi e si presentano ogni volta in un ordine cronologico, altrettanto sicuro dell’ordine di successione dei giorni della settimana o dei nomi dei mesi per la persona mentalmente normale, e rendono difficile il lavoro dell’analisi per la loro particolarità di invertire, nella riproduzione, l’ordine di successione originario; l’esperienza più recente, più fresca del fascicolo viene per prima come “copertina”, e la fine è data da quell’impressione con la quale in realtà la serie è incominciata. Ho indicato il raggruppamento di ricordi omogenei in una pluralità linearmente stratificata (quale si ha nel fascicolo di una pratica d’archivio, in un pacco di documenti, ecc.) come formazione di un tema.
A mighty creature is the germ,
Though smaller than the pachyderm.
His customary dwelling place
Is deep within the human race.
His childish pride he often pleases
By giving people strange diseases.
Do you, my poppet, feel infirm?
You probably contain a germ.
“Credi davvero che Asahikawa non sia tanto male?” chiese Reiko.
“È un ottimo posto, “ dissi. “Verrò a trovarti presto.”
“Sul serio?”
Annuii. “Ti scriverò.”
“Mi piacciono tanto le tue lettere. Peccato che Naoko le abbia bruciate tutte. Erano belle.”
“Tanto, le lettere sono lettere,” dissi. “Che tu le bruci o le conservi, quello che rimane e quello che si deve perdere si perde.”
“Va bene va bene. Ma senti, se devo esser sincera sto morendo di paura, ad andare da sola ad Asahikawa. Perciò tu scrivi, mi raccomando. Se leggo le tue lettere è come averti sempre accanto.”
“Allora te ne scriverò tante. Ma stai tranquilla. Una persona come te se la caverà bene dappertutto.”
“Ho l’impressione che mi sia rimasto dentro qualcosa. Sarà solo l’impressione?”
“Dicevi che a te della vita restavano solo i ricordi. Saranno quelli,” dissi ridendo. Anche lei rise.
Inutilmente, magnanimo Kublai, tenterò di descriverti la città di Zaira dagli alti bastioni. Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte a scale, di che sesto gli archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono ricoperti i tetti; ma so già che sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato: la distanza dal suolo d’un lampione e i piedi penzolanti d’un usurpatore impiccato; il filo teso dal lampione alla ringhiera di fronte e i festoni che impavesano il percorso del corteo nuziale della regina; l’altezza di quella ringhiera e il salto dell’adultero che la scavalca all’alba; l’inclinazione d’una grondaia e l’incedervi d’un gatto che s’infila nella stessa finestra; la linea di tiro della nave cannoniera apparsa all’improvviso dietro il capo e la bomba che distrugge la grondaia; gli strappi delle reti da pesca e i tre vecchi che seduti sul molo a rammendare le reti si raccontano per la centesima volta la storia della cannoniera dell’usurpatore, che si dice fosse un figlio adulterino della regina, abbandonato in fasce lì sul molo.
Di quest’onda che rifluisce dai ricordi la città s’imbeve come una spugna e si dilata. Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.
A prima vista è solo un fermacarte, ma osservato più da vicino appare per quello che è: un frammento di roccia di un colore verde così cupo da sembrare quasi nero, grande quanto un pugno e di forma arrotondata, un ciottolo… La storia del fermacarte inizia con un magma rovente che risale dal mantello, lungo una fessura della crosta, fino a espandersi sul fondo dell’antico oceano, dove si cristallizza come basalto… Schiacciato da enormi pressioni, il basalto comincia a metamorfosarsi, mentre il fondo oceanico, lacerato in lembi spinti ad affastellarsi uno sull’altro, gradualmente viene sollevato di migliaia di metri. L’erosione attacca i nuovi rilievi e li demolisce, finché anche i basalti vengono a giorno. Negli ultimissimi milioni di anni l’espansione dei ghiacci concorre a modellare i rilievi montuosi, scavando valli e circhi glaciali e facendo accumulare materiale morenico, tra cui i ciottoli striati. Il nostro fermacarte è stato testimone di tutti questi eventi, anzi, ne è stato uno dei protagonisti e reca in sé le tracce delle vicende subìte che, con la chiave adatta, siamo in grado di leggere. Ed è proprio scrivendo storie come questa che i geologi ricostruiscono l’evoluzione del pianeta, indietro nel tempo fin dove arrivano le rocce, archivio della Terra.
L’accattone.
[…] Il bagno era piccolo, senza finestra, senza bidet e con il piatto doccia pieno di scatoloni. Rocco ne aprì uno. Polvere. Dentro una marea di carte. Conti, bollette della SIP, fatture di ristoranti, biglietti delle FS. Le date parlavano chiaro. Non c’era nulla posteriore al 1992. Roba vecchia che forse una volta era il lavoro del ragionier Iatta. E che lui aveva stipato in quei cartoni di pomodori pelati, ricordi forse di una vita che fu. Rocco pensò a quando avrebbe compiuto 80 anni. Ammesso che ci fosse arrivato. Nei suoi scatoloni cosa ci sarebbe rimasto? Le foto di Marina al mare, sicuro. Quelle dei suoi amici di Trastevere. Sebastiano, Stampella, Furio e Brizio. Qualche diploma, l’encomio per un caso risolto, un trafiletto di giornale, le lettere del questore che lo minacciava di trasferimento. E soprattutto l’ultimo pacchetto di maria che non era riuscito a fumarsi, magari per l’enfisema o un cancro devastante. Tutta robba che agli occhi di un estraneo non avrebbe significato nulla. E invece scandiva la sua vita. Decise che anche quelle fatture scandivano il tempo sincopato del ragionier Iatta. Si accese una sigaretta e si mise al lavoro.
Almarina mi consegna la sua speranza e io sbaglio. Ma non è che si può rifiutare. Quando entri qui dentro non puoi rifiutare più nulla, i detenuti di Nisida non ti chiedono il permesso di maltrattarti o accoglierti. […]. I loro reati si dividono in due frasi, quelle che loro non possono pronunciare mai, manco con noi insegnanti. Sono racconti sussurrati in sala professori mantre si scalda il caffè sul fornellino elettrico. E quando la collega di lettere ce li dice, noi ascoltiamo e ci guardiamo senza pena né rabbia, né disappunto né orrore né solidarietà né per le vittime né per i carnefici. Noi prendiamo questi faldoni e li riponiamo nel più remoto archivio della memoria e dopo nascondiamo la chiave. La nostra speranza, credo, è che quel giorno, ora lontano, in cui avranno scontato tutta la pena, tornerà loro nelle mani questa chiave, e dagli archivi spalancati voleranno fogli bianchi senza più inchiostro sopra, immacolati, come il bucato delle terrazze.
[…] Consideri la possibilità che esistano frammenti di un suo racconto mai pubblicato [si riferisce a Henry James], e che lei, lei solo, grazie alla sua inventiva, sia in grado di restaurarlo come la sbiadita sinopia di un antico affresco. Se fosse lei a riportarlo alla luce ne diventerebbe il curatore, assumendone la proprietà artistica. Potrebbe utilizzarlo come vuole: farne un romanzo, trarne una sceneggiatura.. E se la storia fosse anche avvincente, la sua candidatura alla regia potrebbe concretizzarsi notevolmente. – E lei crede davvero che esista un inedito? – Oh si, eccome! La produzione di Henry James è smisurata. Se solo le sue lettere fossero raccolte, non basterebbero un centinaia di tomi per contenerle tutte. E in ogni caso, tra la corrispondenza ci sono anche racconti, o abbozzi di racconti di romanzi che occuperebbero uno spazio non minore. A voler fare i conti, si potrebbe giungere alla conclusione che avesse cominciato a scrivere sin da quando era in fasce. – Ma dove trovarli, questi inediti? – Potrebbe contattare mia figlia Olga. Santiquaria in sestrire i è laureata proprio su una tesi sugli inediti di Henry James.
La figli di Elie [Olga] gestiva una libreria antiquaria in sestiere Cannareggio, e in vent’anni di attività era venuta in possesso di parecchi scritti autografi di Henry James, in gran parte ritrovati tra le pagine di libri usati – spesso in biblioteche private acquistate in blocco.
Distruggere tutto, bruciare tutto, dare alle fiamme fotografie e lettere in blocco, senza fare una scelta, senza selezionale.
E’ ciò che comincia a fare alla fine del 1948 nella casa di Park Avenue.. Ci metterà tempo, perché bruciare centinaia di migliaia di fogli essendo un’invalida che fatica a portare le scatole fino al caminetto è ancora una volta un lavoro titanico.
Una notte dopo l’altra durante i mesi di gennaio, febbraio e marzo del 1949 getta nel fuoco le reliquie della sua vita. In primavera è tutto andato in fumo, i quaderni del suo diario, le innumerevoli lettere di Bernard Berenson.. già, tutte le lettere in cui le dichiarava il suo amore, le raccontava delle sue ricerche e le parlava delle sue scoperte. Più di duemila fogli.
Quando Berenson viene a sapere di quell’autodafé grida inorridito: “Ha distrutto quarant’anni della mia biografia!”. Belle pretende che lui faccia altrettanto, ma lui non deciderà mai. (pp.476-477)
Le lettere di Belle Greene a Bernard Berenson sono conservate a Villa I Tatti a Fiesole
Nel 1962 Burt Lancaster, (…), si dichiara disponibile [per il film Il Gattopardo di Luchino Visconti].
Goffredo Lombardo vola negli Stati Uniti per costruire una partnership con gli americani e prima di partire fa tradurre e spedire la sceneggiatura. Quando arriva, gli americani lo gelano: gli dicono che la sceneggiatura non funziona, e così com’è non pensano di metterci i soldi.
E qui Lombardo fa una cosa grandiosa: scrive due telegrammi diversi. Uno a Visconti e uno a Suso [Cecchi D’Amico]. Quello a Visconti è il seguente: MERCATO INTERNAZIONALE EST FIACCO ET CON LANCASTER ET SUA REGIA OTTENIAMO CHE PROGETTO NON SIA SCARTATO MA PURTROPPO DIMENSIONE ASSUNTO DA FILM RAPPRESENTA OSTACOLO INSORMONTABILE STOP FRA QUALCHE GIORNO SPERO POTER INCREMENTARE OFFERTA RICEVUTA ET TELEGRAFERO IMMEDIATAMENTE SPERANDO CHE LEI ET SOLO LEI POSSA OPERARE MIRACOLO.
Quello a Suso è accorato e sincero: RISERVATAMENTE SCENEGGIATURA GATTOPARDO REAZIONI NEGATIVE DICONO LENTA SENZA INTERESSE ET DIALOGHI FILOSOFICI INTERMINABILE STOP VOGLIONO INOLTRE FILM MASSIMO DUE ORE STOP PREVENTIVO INVIATOMI NOTARIANNI EST FOLLE ET MIE RICHIESTE ANCHE CON LANCASTER OTTENGONO SOLO ILARITA STOP PER FAVORE STUDIA POSSIBILITà ELIMINARE SCENE ET SITUAZIONI MAGGIOR COSTO ET LUNGHEZZA PARLANDONE COME TUA IDEA CON VISCONTI STOP AIUTAMI GRAZIE.
Quest’ultimo telegramma è conservato tra le carte di Caterina d’Amico, l’ho tenuto in mano: alcune carte originali danno misura del tempo e della grandezza; anche perchè quel telegramma ha il mito del segreto. (pp. 128-129)
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